C’era una volta una storia selvatica … e quella volta parlava di me.
Il mio nome vero è elena delle selve; non ho altri nomi e non li ho mai avuti. Hanno provato a darmene altri, questo è vero, ma lo hanno fatto con l’inganno e non erano veramente il mio nome. Il mio nome è elena delle selve. Punto.
E vengo dai boschi, questo posso dirlo con prove alla mano, perché è un fatto oggettivamente comprovabile. Se poi volete sapere dove sono e dove vado, allora nel primo caso sono qui dentro, nel mio involucro fisico, per la seconda domanda non posso aiutarvi, perché “che ne so dove vado?!!”

Sono una personaggio di una fiaba, o di un racconto mitologico, quindi partiamo subito col dire che in questa Storia Selvatica, una bambina esile con occhi troppo grandi, troppo azzurri e lunghe trecce bionde troppo lunghe, viveva lassù sulle montagne.
Il mio gioco preferito da piccola era giocare con il fango; usavo dei bicchieri, delle pentole, delle tazze… e il fango che trovavo nelle pozze di sorgente, dove le vacche andavano ad abbeverarsi in estate, a ridosso delle montagne.

E nessuno mi ha mai detto niente. Ero sempre inzaccherata di fango fin sopra le orecchie, ma nessuno se ne accorgeva. Io ero una bambina invisibile. Questo può sembrare forse triste, ma mica tanto; per me, invece, l‘invisibilità era il mio super potere e ci tenevo tantissimo.
Usavo il fango, l’argilla e l’acqua; li mettevo nei contenitori e poi li lasciavo seccare al sole. E intanto immaginavo… immaginavo un sacco di cose. Quando erano abbastanza asciutti, creavo dei personaggi di fango togliendoli dalle forme.
Gli facevo i capelli con l’erba fresca se erano giovani, o con i licheni e l’erba secca se erano vecchi. Ero brava a fare anche lunghe barbe, folti baffi e sopracciglia.
O se erano donne, gli mettevo le foglie del farinaccio sulla testa; sì, perché dove vivevo io, le donne portavano fazzoletti colorati sulla testa.

Poi ci facevo dei buchetti nelle foglie e ci infilavo gli steli dei fiori di tarassaco, o i ranuncoli selvatici, o i botton d’oro; così anche le donne dei miei villaggi avevano tutte dei fazzoletti colorati e pieni di fiori.
Creavo interi paesi di personaggi fatti di fango; alcuni erano dei giganti davvero terribili, con lunghi denti affilati fatti con le scorze dei larici e gli occhi strabuzzanti fatti con i sassi e i licheni.
I giganti erano sempre accompagnati da altrettanto terribili draghi, o mostri; di quelli con una lunga coda di lucertola e lunghissimi artigli di stecchi d’abete rosso.
I draghi non erano sempre cattivi, però… a volte erano anche buoni, soprattutto se avevano le ali. I mostri invece erano tutti mangiatori di uomini. A volte dormivano, ma poi si svegliavano all’improvviso e divoravano tutti.

A volte i draghi combattevano contro i mostri, se avevano le ali. Altrimenti no…erano anche loro mostri cattivi come i mostri.
Passavo lunghi pomeriggi occupandomi dei miei villaggi di personaggi di fango; avrei dovuto occuparmi del bestiame, in realtà, ma le vacche erano autonome e sapevano pascolare anche senza la mia costante presenza.
Ho passato anni a costruire villaggi… lunghi anni passati con le mani nell’acqua, nel legno, nell’erba e nel fango. Quello era il mio gioco. Il mio mondo immerso in quell’altro mondo fatto di lavoro, di montagne e di boschi, ma ben nascosto, sempre.
Io non ero mai sola in quei lunghi mesi sulle montagne. Non lo sono mai stata. La “mia gente” era quella popolazione di personaggi che conoscevo molto bene e che sapevo persino che cosa li teneva insieme… perché ero io che li costruivo, che gli mettevo l’anima di legno, o di roccia, o di erbe secche.
Li facevo cantare, urlare, bisbigliare, discutere del più e del meno… li facevo anche ridere, giocare a carte e perdere, a volte, ma i più ridevano poco… che non c’era un cazzo da ridere con la foresta infestata da tutti quei mostri, di solito.

Creavo storie infinite con i miei personaggi di fango; storie davvero avvincenti, con trame complicatissime e, a volte, dovevo fermare tutto, perché saltava fuori un nuovo personaggio, solo che non lo avevo ancora costruito, quindi mettevo in pausa le vicende di quella gente di fango, perché dovevo occuparmi del nuovo arrivato, o della nuova arrivata.
Nessuno fino a questo momento si è mai accorto che quel mio mondo esisteva, perché c’era una regola; la segretezza assoluta. Alla sera, quando era ora di rientrare e riportare il bestiame a casa, io sapevo che dovevo nascondere quel mondo agli occhi dei profani… sapevo che non mi potevo fidare, quindi l’unico modo era quello di immergere la “mia gente” nell’acqua. Li adagiavo con cura nelle pozze, o nei torrenti, nei ruscelli… e loro, piano, piano, si dissolvevano e tornavano all’acqua e alla terra.
Era un rito funebre quotidiano… ed era mesto e triste, esattamente come un vero funerale, ma sapevo che non potevo fare diversamente; non potevo lasciarli in balìa della notte, da soli, magari esposti a qualche belva selvatica.

Nemmeno i draghi avrebbero potuto fare molto, contro una volpe, una martora, o un corvo imperiale dieci volte più grande di loro. Per non parlare del pericolo per eccellenza, che erano gli adulti della specie Sapiens sapiens (tronfi, gli uomini, che si definiscono due volte sapienti e invece non hanno ancora capito un cazzo!).
Quella loro inquietante, ma dolce morte quotidiana era il mio modo di proteggerli da qualche cosa di peggiore che poteva senz’altro avvenire in mia assenza; se io non ero presente per difenderli, dovevo prevenire il peggio. In tutto questo, uno come Jung, oggi so che avrebbe molto da dire.
E così quei villaggi di fango morivano tutti, alla fine del giorno, verso il tramonto. Io li salutavo, uno a uno, prima di immergerli e vederli liquefarsi e scorrere via, con i fiori e l’erba che fluivano piano in superficie e se ne andavano sempre più lontani.
Quando avevo finito, radunavo le vacche e tornavo alla stalla, a mungere.

E mentre lavoravo, nella mia testa pensavo a loro, alla storia che era nata quel giorno, al drago che aveva sì ucciso molti uomini del villaggio, ma alla fine era stato decapitato dallo gnomo con il piede monco, e quindi tutto finiva abbastanza bene… di solito.
C’era sempre un premio per il vincitore alla fine della storia… lo gnomo col piede monco in quegli anni faceva faville e la comunità gli offrì molti doni. A volte lui li aveva accettati, altre volte anche no, perché era piuttosto volubile, lui e aveva gusti difficili.
C’era una volta elena delle selve, che raccontava storie alle selve, ai torrenti, alle cascate e ai fiori, e le selve la stavano a sentire, e da allora, non ha più smesso.
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Lunga vita e prosperità solo a quelli che hanno letto tutto fino a qui… a tutti gli altri, una discreta abbondanza e una vita degna.
elena delle selve

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